Pasqua. Tra precetti e superstizioni

Dopo quello quaresimale, vi propongo l’editoriale pasquale che ho scritto per “Il T Quotidiano”. Prendendo spunto da due documenti molto lontani tra sé per cronologia e geografia, ho provato a ragionare sui temi riassunti nel titolo.

Il lavoro di storico si alimenta voracemente dalla lettura di antichi documenti, i quali spesso contribuiscono alla comprensione del mondo nel quale viviamo, qui e ora. Stavo consultando degli scritti relativi alla Pasqua e due in particolare, tra loro geograficamente e cronologicamente molto lontani, hanno attirato la mia attenzione.

Il primo risale alla metà del XIV secolo e si colloca a Firenze. È uno statuto scritto nel 1346 per dettare le regole del lavoro dei macellai (beccai) della città. Sanciva il divieto di macellare animali in quaresima, con un’eccezione per agnelli e capretti da latte. Perché agnelli e capretti da latte sì? Perché la scienza medica del tempo considerava queste carni curative e i medici le prescrivevano agli ammalati dispensati dall’osservanza dell’obbligo di astinenza. Altre eccezioni erano previste per giovedì e sabato santi, la prima riguardava la macellazione delle carni (tutte), il secondo la loro vendita ed erano entrambe motivate dalla necessità di prepararsi adeguatamente al banchetto pasquale. Un divieto ulteriore si applicava alla mescita del vino, dal quale evidentemente i fedeli fiorentini erano chiamati ad astenersi. Oggi il forte stacco tra la privazione del tempo quaresimale e la grande celebrazione della Pasqua non è più parte integrante delle abitudini alimentari della maggioranza dei fedeli. Il pranzo di Pasqua, di norma, è un’occasione di socialità (non di rado forzata) anziché di celebrazione dell’abbondanza per salutare il miracolo della resurrezione. Nessuno inoltre si sognerebbe di curare gli infermi con bistecche di agnello e capretto. Le cose cambiano. 

Per collocare sulla mappa il secondo documento bisogna fare un grosso balzo e raggiungere gli Stati Uniti Occidentali, stato di Washington, contea di Spokane. Il missionario gesuita Louis Ruellan scriveva una lettera al confratello Emmanuel Mourier, era il maggio 1884. Ruellan ricordava le festose celebrazioni pasquali del mese precedente, condivise con un gruppo di cosiddetti indiani della nazione Kalispel. Per prima cosa metteva in evidenza un aspetto ricorrente nella corrispondenza missionaria dell’epoca: quello del desiderio dei neo-convertiti di confessarsi a tutti i costi per celebrare degnamente la Pasqua, disposti a sobbarcarsi anche tre giorni di viaggio per incontrare qualcuno dei pochi preti presenti in un territorio sterminato. Le confessioni, aggiungeva Ruellan, presentavano dei casi di difficile risoluzione (casi di coscienza), per rispondere ai quali era necessario ricorrere all’aiuto di canonisti e teologi. Riportava di seguito il colloquio avuto con un penitente Kalispel: “Padre, posso andare alla comunione? Credo di aver rotto il digiuno”. “Come hai rotto il digiuno?”. “Ho schiacciato un pidocchio tra i denti”. Non è una pratica insolita, specificava il gesuita, perché tra i Kalispel era comune spidocchiarsi a vicenda proprio attraverso il morso. Si trattava di un dubbio sacrosanto o della traduzione di un precetto in una superstizione? La paura del pidocchio era un legittimo timore di avere in qualche modo infranto le norme cristiane o rimandava invece a vecchie credenze, per le quali un comportamento rituale poteva incidere sul presente e sul futuro di chi lo aveva tenuto?

Un testo molto più recente, pubblicato qualche giorno fa su America Magazine, la voce dei gesuiti statunitensi e scritto da Simcha Fisher, si intitolava “La superstizione è un peccato. Ed è più comune di quello che i cattolici possano pensare”. Esaminando pratiche devozionali legate alla statua di san Giuseppe, formule battesimali, paramenti particolari e altre stranezze sperimentate nel partecipare a riti cattolici, Fisher ha proposto un ragionamento sulla quota di superstizione che tutt’oggi esiste nel modo di vivere di molte e molti fedeli. Ha ricordato che secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica le pratiche superstiziose sono proibite perché attribuiscono l’efficacia delle preghiere o dei segni sacramentali alla loro mera esecuzione esterna, a prescindere dalle disposizioni interiori richieste. In sintesi, bisogna pregare con cuore sincero, non con gesti eclatanti. Così come per i neo-convertiti Kalispel, anche per il cattolico del terzo millennio svincolare il comportamento dalla fede interiore non è un percorso sempre immediato. Non c’è nulla di nuovo. 

“Le cose cambiano” e “Non c’è nulla di nuovo” sono le due espressioni che ho scelto per chiosare il commento ai due documenti. Sembrano in contraddizione, ma a ben pensarci non lo sono: il mutamento – in questo caso quello della pratica religiosa pasquale – non è mai lineare, procede per strade intricate che non escludono certo la marcia indietro. Buona Pasqua.